Pubblicato su un forum di RPG on line, i riferimenti meno comprensibili sono legati a situazioni note ai soli giocatori.
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Il mio nome è Berton, Berton Berton, divenuto ufficiale senza esser nato gentiluomo.
Mi battezzarono così i frati di San Miguel che, per mia fortuna, possedevano alcune capre il cui latte non mi risultò indigesto nei primi giorni di vita.
Essere allevato in una piccola comunità monastica offre vantaggi che non son dati a tutti gli infanti abbandonati. Innanzi tutto sopravvivi, il che non è poco. Poi cresci in vigore e salute grazie ad una alimentazione sana e abbondante e, a suon di salmi e scappellotti, ricevi un'istruzione che difetta anche a gente di illustre casato. Inoltre impari a padroneggiare ogni mestiere, perché il monastero è organizzato in guisa da esser perfettamente autosufficiente.
L'unico mestiere che, di norma, colà non viene insegnato è quello delle armi, ma le regole sovente soffrono di eccezioni e la nostra eccezione era Herman Jacques, un anziano templare aggregatosi a San Miguel negli anni della mia adolescenza.
Scorgendo in me buone potenzialità, egli chiese ed ottenne dal Priore il permesso di tramandarmi le arti sue, sicché al diuturno orare et laborare si aggiunsero, per me, le pratiche marziali.
Herman Jacques ne aveva davvero fatto un'arte, perché il suo approccio al combattimento – in armi o senza - faceva assai più affidamento sulle virtù dello spirito che non sul vigore delle membra; prevedere o provocare l'altrui attacco, pararlo o schivarlo di misura, e assestar la botta a colpo sicuro gli veniva altrettanto spontaneo e non più faticoso del respirare.
Purtroppo Theos lo chiamò a sé pria che potesse formarmi come avrebbe voluto, per cui molto ancora mi resta da imparare.
Ad ogni modo, vedendo che avevo maggior vocazione per le armi che non per la vita monastica, il Priore mi impartì la sua benedizione e mi affidò al secolo con una lettera di raccomandazione indirizzata al Conte Jordi de Tossa.
Ad ulteriore conferma che le regole son fatte per essere infrante, la lettera del Priore mi valse l'ammissione fra i Montesa, ove divenni compagno d'armi di due nobili giunti dall'Italia
Eran costoro l'estroverso Fabio Massimo ed il taciturno Carlo Colonna, valenti cavalieri con cui avrei di lì a poco condiviso varie avventure. Italiani con antenati in Scozia, li sfottevo io, essendovi forza oscura che impedisce all'argento di sostare a lungo nelle mie tasche.
Dopo la campagna che ci vide entrare in Roma con l'esercito di conquista, sull'intera Aragona iniziò a calare una sconfortante apatia, largamente imputabile all'inerzia del Re.
Ad accrescere le nostre sventure, il Conte de Tossa si lasciò morire - quasi avesse perso gusto alla vita – dopo l'inatteso decesso di un suo giovine amico. Con lui spariva quella che mi parea esser la forza più vitale del regno per cui, amareggiato dalla sua scomparsa e disgustato dai pettegolezzi che ne seguirono, volli tentar la sorte oltre confine.
Avrei potuto stabilirmi in Francia, ove risiedevano alcuni miei conoscenti – fra cui l'insondabile Cancelliere e quel Condé noto per proverbiali cadute da cavallo – ma scelsi le Fiandre perché un gioviale mercante vichingo mi disse che avrei potuto arricchirmici anche sol facendo il taglialegna. L'indicazione non era sbagliata, ma ne ricavai meno del previsto perché vi fu sciagurato che iniziò a vendere sottocosto, e dovetti adeguarmi.
Durante la mia breve permanenza in quelle contrade feci anche strage di ribelli e fui onorato di offerte assai lusinghiere che, tuttavia, non ero in condizione di poter accettare.
In ogni caso, restavo un Montesa e Fabio Massimo, che ne aveva assunto il magistero, si ricordava benissimo di me; mi convocò una prima volta in soccorso di Milano, poi per una azione diversiva in Monferrato, ed infine mi convinse a tornare in patria.
La situazione non era migliore di quando ero partito, Re Carpegna parea sempre più mummia che vivente, e tal sua condizione avea contagiato l'intera città. Noi, comunque, potevamo almeno tener alto l'onore del Regno sostenendo gli alleati di Castiglia nelle loro campagne contro i ribelli; un impegno che accettai di buon grado, essendovi stato incoronato un vecchio cliente, Giovanni Pignatelli, che aveva chiamato i due parigini di cui ho detto a responsabilità di governo.
Rimasi stupito nel vedere Burgos, pochi mesi prima squallidissima, come rifiorita. Commentai con Carlo tutti i cambiamenti che avevo notato e, dopo un tempo che mi parve lunghissimo, lui si limitò ad osservare: “qui hanno un nuovo re”.
Le operazioni contro i ribelli vennero sospese quando dovemmo schierarci a difesa contro una minaccia di invasione genovese, ma la questione venne poi appianata senza spargimento di sangue.
Sulla via del ritorno si aggregò alla nostra colonna il mio amico vichingo, diretto a Valencia per conferire con Re Carpegna. Il Von Luxemburg gli aveva delegato alcuni incarichi, il che mi parve tanto strano qual sodalizio fra diavolo e acqua santa.
In ogni caso non avemmo modo di sviscerare la questione, perché gli eventi presero una piega del tutto inattesa.
Poco ho da aggiungere alle cronache ufficiali sulla rivolta contro il Carpegna.
La mummia incoronata avea passato il segno, e se non lei i loschi figuri che ancora la animavano.
Noi Montesa forzammo la volontà del nostro Gran Maestro acciocché sottraesse lo scettro a tanta putredine, il popolo tutto si unì alla nostra prece, e persino il giudice, il direttore dell'accademia ed il Vassallo di Valencia si schierarono con noi.
Quest'ultimo, ritengo, ci seguì a malincuore, avendo divisato di poter esser egli stesso a risollevare i nostri destini, ma poiché pronto non era e stolto neppure fece mostra d'entusiasmo..
Fosse stato possibile irromper d'impeto a palazzo, la questione sarebbe stata risolta in un momento: ma i necessari preparativi richiesero tempo e così, pur cogliendo il successo, fummo coglionati.
Fabio Massimo fu re senza spargimento di sangue, ma senza il becco di un quattrino, imperocché la mummia e tutti i suoi tesori s'eran dileguati per un passaggio segreto. I dettagli ci furon rivelati da una spaurita e graziosa giovinetta che, per quanto ne so, tuttora presta servizio nella dimora reale, presumo con maggior soddisfazione che in passato.
Quel giorno stesso fui capitano della guardia, non tanto per virtù mia quanto per il buon cuore di Carlo, che assunse il comando dei Montesa e lasciò a me l'alloggio di servizio.
Di quelle stanze ne avevo un gran bisogno, essendo fuor discussione ch'io potessi acquistar casa e assai disdicevole che continuassi a sperperar li liquidi in taverna; però, in quei primi tempi, fui guerriero senza riposo.
Dapprima dovetti occuparmi delle requisizioni in danno del Carpegna, poi il Condè mi segnalò che i Portoghesi gli chiedevano assistenza per l'impresa di Braganza.
La gran calura ed il delicato momento politico non eran, per noi, propizi alla spedizione, ma il nuovo ruolo pubblico impediva, a me personalmente, di defilarmi.
Senza gran convinzione affidai ad un banditore la mia richiesta di volontari, ed il risultato fu doppiamente sorprendente: ne accorsero in buon numero e, anziché i compagni di sempre, si trattava di reclute della milizia.
L'unico volto vagamente familiare era quello del giovane Teobaldo, parente ed erede di un amico passato a miglior vita. Era sicuramente l'elemento più dotato e meglio equipaggiato, ma le sue scarpe stavan cadendo a pezzi e dovetti passargli quelle mie.
Quel contingente improvvisato mi avrebbe riempito d'orgoglio: fu il più rapido a schierarsi in campo, si batté con efficacia, e uscì dalla prova con modestissime sofferenze.
Io spacciai senza gran fatica il mio paio di buzzurri, ma di tal risultato non meno gran vanto.
Vero trofeo della giornata fu l'arruolamento dei Varano in nostra armata.
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